giovedì 29 ottobre 2015

Giolitti, l'uomo dai due volti




Giovanni Giolitti, statista italiano (Mondovì 1842 - Cavour 1928). Abilissimo nella manovra in Parlamento, dotato in sommo grado della pronta duttilità necessaria a ricavare dalla mutevolezza delle situazioni il criterio dell'azione politica e forte di una solida maggioranza ottenuta anche attraverso l'uso spregiudicato dei mezzi a sua disposizione in materia di elezioni e di favori concessi a candidati o deputati governativi, esercitò il potere in una maniera che i suoi avversari chiamarono dittatoriale (e Salvemini lo definì addirittura “ministro della malavita”), ma che in sostanza seppe adattare con intelligente lungimiranza le strutture dello Stato alla nuova realtà economica e sociale in impetuosa evoluzione. Fondamento del suo disegno politico fu il rafforzamento dello Stato mediante l'inserimento nell'area costituzionale dei socialisti e dei cattolici e in genere delle forze che erano rimaste ai margini del processo unitario risorgimentale. Da tale disegno derivò innanzi tutto la sostanziale neutralità nei conflitti di lavoro a cui rimase sempre fedele nonostante le molte proteste conservatrici, il riconoscimento delle organizzazioni sindacali e una vasta opera di legislazione sociale che favorirono lo sviluppo di un'élite operaia privilegiata e più pronta alla collaborazione. Aiutato, quindi, dall'imponente espansione economica che tranquillizzava i ceti abbienti e imprenditoriali, si avviò sulla strada di ampie riforme strutturali che culminarono nella nazionalizzazione delle imprese assicuratrici, nella brillante conversione della rendita dal 5 al 3,5% (1906) e nell'introduzione del suffragio universale maschile (1912), che aprì alle masse una prima via di partecipazione politica alla vita dello Stato.



Accostatosi frattanto alla Francia e alla Russia, pur senza venir meno ai vincoli derivantigli dalla Triplice, poté compiere felicemente la conquista della Libia (1911-12) a cui lo spingevano il nascente nazionalismo e le speranze capitaliste di nuovi mercati, ma si alienò in tal modo il relativo favore deisocialisti che lo aveva variamente assistito fino a quel momento. Indebolito da questo fatto e dalla persistente opposizione di tenaci avversari (meridionalisti, antiprotezionisti, nazionalisti, ecc.) cercò l'appoggio dei cattolici con il patto Gentiloni, ma dopo le elezioni del 1913, venutogli meno anche l'appoggio dei radicali, fu costretto a dare le dimissioni (marzo 1914). Scoppiata la guerra e fermamente persuaso dei possibili vantaggi derivanti dalla nostra neutralità, avversò nettamente gli interventisti che lo fecero oggetto di ogni genere di contumelie. Primo ministro per l'ultima volta dal giugno 1920 al luglio 1921, dovette affrontare una situazione prerivoluzionaria di fronte alla quale la sua capacità manovriera e il suo empirismo si rivelarono alla lunga inadeguati e impotenti. Con la sua lucida calma riuscì a risolvere i gravi problemi dell'occupazione delle fabbriche (1920), dei rapporti con la Iugoslavia (Trattato di Rapallo, 1920) e dell'avventura fiumana, ma di fronte alla nascita del Partito Popolare e del fascismo si rivelò incapace di un'organica visione dei problemi politici di fondo. Sciolte quindi le Camere nel 1921 e impedito di costituire un nuovo governo dal veto di Sturzo (1922), continuò a sperare in un fascismo destinato a rientrare presto nell'alveo della democrazia parlamentare e solo nel 1924 passò a una dichiarata opposizione che confermò ulteriormente nel 1928 pronunciandosi contro l'istituzione della Camera corporativa. Ha lasciato le interessanti Memorie della mia vita (1922), che sono un importante documento per la conoscenza del periodo storico in cui visse.

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